Nutrizione

Dieta chetogenica e diabete tipo 2: è davvero la dieta migliore?

1. Funziona? La risposta breve è: sì, ma non per tutti

La dieta chetogenica può migliorare diversi aspetti del diabete tipo 2: riduce la glicemia, l’HbA1c, il peso corporeo e in molti casi permette di diminuire i farmaci ipoglicemizzanti. Questo è confermato da numerosi studi controllati, soprattutto nel breve e medio termine. Tuttavia, quando la si confronta con altri modelli alimentari ben strutturati come la dieta mediterranea o una classica ipocalorica  le differenze si attenuano rapidamente se l’apporto calorico è simile.

In altre parole, la chetogenica può essere efficace, ma non è magicamente superiore a qualsiasi altra strategia. E, come ogni terapia nutrizionale, funziona davvero solo quando è personalizzata e sostenibile per la persona.

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2. Cosa dicono le linee guida più autorevoli

Le principali società scientifiche internazionali hanno una posizione piuttosto chiara. Le ADA Standards of Care 2025 indicano che la distribuzione dei macronutrienti deve essere personalizzata e che i regimi a basso contenuto di carboidrati  inclusa la chetogenica  sono un’opzione valida quando migliorano l’aderenza e il controllo glicemico. Non un obbligo, non un modello “migliore” in assoluto, ma una possibile strada.

Anche l’AACE nel suo algoritmo del 2023 riconosce che la riduzione dei carboidrati può essere utile nell’ambito di un piano nutrizionale individualizzato per diabete e obesità. Il messaggio chiave è sempre lo stesso: non esiste un’unica dieta perfetta, esiste quella più adatta alla persona, ai suoi obiettivi e alle sue condizioni cliniche.

3. Cosa mostrano gli studi comparativi più solidi

Quando si mettono a confronto chetogenica e dieta mediterranea in modo rigoroso, i risultati diventano più sfumati. Nel Keto-Med trial (AJCN 2022), condotto su adulti con prediabete o diabete tipo 2, entrambe le diete hanno migliorato HbA1c e peso, ma senza reali differenze tra i modelli, a parità di deficit calorico. La chetogenica ha ridotto maggiormente i trigliceridi, ma ha aumentato in media l’LDL di circa il 10%. Inoltre, garantiva livelli più bassi di fibre, micronutrienti e dettaglio spesso sottovalutato risultava meno sostenibile nel lungo periodo.

Le meta-analisi confermano questa lettura: miglioramenti ci sono, specie nei primi sei mesi, ma tendono a ridursi dopo un anno. L’effetto non è superiore in modo consistente rispetto ad altre strategie ben strutturate. I benefici maggiori derivano spesso dal deficit energetico, dall’attenzione alla scelta degli alimenti e dalla maggiore aderenza nei pazienti che preferiscono naturalmente questo tipo di alimentazione.

4. I punti critici: non è la dieta giusta per tutti

Se da una parte la chetogenica può rappresentare una scelta utile, dall’altra presenta alcune criticità da considerare prima di iniziare. Chi assume SGLT2-inibitori corre un rischio aumentato di chetoacidosi, anche con glicemie normali (la cosiddetta EDKA): per questi pazienti è necessaria una valutazione attenta e spesso si consiglia di sospendere temporaneamente il farmaco durante la chetosi nutrizionale.

Anche chi utilizza insulina o sulfaniluree deve procedere con prudenza: una riduzione drastica dei carboidrati senza un aggiustamento mirato della terapia espone al rischio di ipoglicemia. Nei soggetti con diabete di tipo 1, invece, la chetogenica non è raccomandata routinariamente: il rischio di DKA e ipoglicemie è molto più alto e gli studi disponibili sono scarsi.

5. Quando può essere una buona opzione

La chetogenica può funzionare molto bene in pazienti con diabete tipo 2 e obesità, motivati, che preferiscono spontaneamente mangiare pochi carboidrati e che sono disponibili a un follow-up regolare. In queste condizioni, può portare a una perdita di peso significativa, a un miglioramento del controllo glicemico e, di conseguenza, alla riduzione dei farmaci.

È particolarmente utile nei percorsi in cui l’obiettivo è ridurre la fame, stabilizzare la glicemia o “rompere” un circolo vizioso di alimentazione disordinata e iperfagia. Tuttavia, è fondamentale non trascurare la qualità dei grassi, monitorare il profilo lipidico e assicurarsi un adeguato apporto di fibre, micronutrienti e vegetali.

6. Quando è meglio orientarsi verso altre strategie

Se una persona ha già un LDL elevato, una storia di malattia cardiovascolare, difficoltà a sostenere restrizioni rigide o assume farmaci che aumentano il rischio di chetoacidosi, allora una dieta mediterranea strutturata, una ipocalorica bilanciata o un modello moderatamente low-carb possono essere alternative molto più sicure e altrettanto efficaci.

L’evidenza non dice che la chetogenica sia “la migliore”, ma che può essere utile se è la dieta giusta per quella persona, nel contesto giusto e con il monitoraggio adeguato. L’obiettivo finale non è entrare in chetosi, ma migliorare il controllo metabolico, ridurre i farmaci quando possibile e costruire uno stile di vita sano sostenibile nel tempo.

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Valerio Gamucci, nutrizionista

Autore - Valerio Gamucci

Biologo nutrizionista Theia, esperto in integrazione e nutrizione sportiva.

FAQ

1) La dieta chetogenica è la migliore per chi ha il diabete tipo 2?

No. Pur essendo ricchi di purine, i legumi non sono associati a un aumento del rischio di attacchi. Le grandi coorti osservazionali mostrano che solo le purine animali hanno un impatto significativo.

2) Chi non dovrebbe seguire una chetogenica?

Non è raccomandata per chi assume SGLT2-inibitori (rischio di chetoacidosi euglicemica), per chi usa insulina senza monitoraggio adeguato, per persone con storia di malattia cardiovascolare e LDL elevato, o per soggetti che non tollerano restrizioni rigide.

3) La chetogenica aiuta davvero a ridurre i farmaci?

In alcuni pazienti sì, soprattutto quando porta a un calo di peso e a un miglioramento della glicemia. Ma la riduzione dei farmaci deve sempre essere gestita dal medico, perché con questa dieta cambia rapidamente il fabbisogno ipoglicemizzante.

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