
Il digiuno intermittente è diventato una delle tendenze nutrizionali più discusse degli ultimi anni. Tra chi lo pratica per dimagrire e chi lo adotta per “detox”, c’è anche chi lo propone come possibile strategia per prevenire l’Alzheimer o rallentare il declino cognitivo. Ma quanto c’è di vero in tutto questo?
Le promesse sono tante, ma quando si entra nel campo delle malattie neurodegenerative – come la malattia di Alzheimer (AD) o il declino cognitivo lieve (MCI) – serve molta cautela. La ricerca scientifica, ad oggi, non supporta il digiuno come cura o prevenzione del decadimento cognitivo, anche se stanno emergendo alcuni dati interessanti.
Le principali linee guida internazionali che si occupano di prevenzione e trattamento dell’Alzheimer e del declino cognitivo non menzionano il digiuno intermittente come strategia utile. In particolare:
a) L’OMS (2019) raccomanda attività fisica, controllo della pressione, dieta tipo mediterranea, ma non include il digiuno tra le misure con evidenza scientifica sufficiente.
b) La Lancet Commission (2017, 2020, 2024) identifica 12 fattori modificabili di rischio per demenza: il digiuno non compare tra questi.
c) Anche l’American Academy of Neurology (AAN), nelle sue linee guida per il MCI, non raccomanda né digiuno né integratori specifici, ma solo attività fisica regolare e monitoraggio clinico.
Morale della favola? Il digiuno non è riconosciuto come intervento clinico per prevenire o trattare l’Alzheimer. Almeno, non per ora.
Anche se le linee guida non lo contemplano, alcuni studi hanno iniziato a esplorare il rapporto tra digiuno intermittente, restrizione calorica e salute del cervello.
a) Il primo segnale arriva da un RCT del 2009 (Witte et al.): in adulti sani, la restrizione calorica del 30% per 3 mesi ha migliorato la memoria verbale.
b) Altri trial recenti (Kapogiannis 2024, Manolopoulos 2025) hanno testato il modello 5:2 (due giorni a restrizione calorica, cinque a dieta normale) su anziani con insulino-resistenza. Risultati? Alcune modifiche di biomarcatori cerebrali, ma gli effetti clinici sulla memoria sono stati limitati o assenti.
a) Uno studio del 2025 ha applicato un regime di Time-Restricted Feeding (TRF) per 4 mesi (es. 16:8) a pazienti con Alzheimer, con segnali positivi su attenzione e memoria, ma campione piccolo e metodologia da confermare.
b) È in corso un trial randomizzato (TREAD) che valuterà l’effetto di 12 settimane di TRF in pazienti con declino cognitivo lieve o malattia di alzheimer: dati attesi nel 2026.
Anche se non è digiuno, la dieta chetogenica riproduce alcuni effetti metabolici del digiuno (chetosi) e ha mostrato qualche effetto positivo a breve termine su memoria e funzionalità quotidiana in pazienti con MCI o Alzheimer (Phillips 2021; Buchholz 2024). Tuttavia, sono studi piccoli e preliminari, e non tutti tollerano bene questo approccio.
Nei topi con Alzheimer, il digiuno intermittente e le diete che mimano il digiuno sembrano ridurre neuroinfiammazione, accumulo di placche di beta-amiloide e proteina tau. In pratica, nei modelli murini:
a) Il digiuno ciclico migliora parametri cognitivi.
2) Le diete mima-digiuno (Fasting-Mimicking Diet) riducono marker infiammatori e ossidativi.
Ma attenzione: questi dati preclinici non possono essere automaticamente trasferiti all’uomo. I cervelli umani sono molto più complessi, e il metabolismo di un topo in laboratorio non riflette la realtà clinica.
Alla luce delle migliori evidenze disponibili, no. Il digiuno intermittente non è attualmente raccomandato né per prevenire né per trattare la malattia di Alzheimer.
a) I pochi studi clinici disponibili hanno campioni ridotti, durate brevi e spesso valutano biomarcatori o funzioni cognitive isolate, non reali benefici clinici.
b) Gli effetti benefici emersi sono modesti e non conclusivi. In molti casi, il confronto è con diete poco strutturate o non ben controllate.
c) Le linee guida più autorevoli non lo considerano un’opzione clinica valida al momento.
Questo non significa che il digiuno faccia male: in alcune persone può aiutare nel controllo del peso o della glicemia. Ma pensare che possa “curare” o “prevenire” l’Alzheimer è, oggi, scientificamente infondato.
Il digiuno intermittente è una strategia nutrizionale interessante, con potenziale metabolico, ma i suoi effetti sul cervello e sull’Alzheimer in particolare non sono ancora supportati da evidenze solide.
Se ne può parlare in ottica sperimentale, e alcuni studi in corso potrebbero fornire indicazioni più chiare nei prossimi anni. Ma nel frattempo, per proteggere la salute cerebrale, restano molto più importanti:
a) l’attività fisica regolare
b) una dieta tipo mediterranea
c) il controllo dei fattori vascolari (pressione, glicemia, colesterolo)
d) la stimolazione cognitiva e la socialità
In sintesi: muoversi, mangiare bene, curare il cuore è ancora la ricetta migliore anche per il cervello.
No. Al momento non esistono prove solide che il digiuno protegga dal declino cognitivo o dall’Alzheimer. Le principali linee guida internazionali non lo raccomandano come intervento clinico.
Alcuni piccoli trial hanno osservato modesti miglioramenti di memoria o biomarcatori cerebrali, ma senza effetti clinici consistenti. Gli studi più robusti (come TREAD, in corso) chiariranno nei prossimi anni se esistono reali benefici.
Nei modelli murini, il digiuno intermittente riduce neuroinfiammazione e accumulo di placche amiloidi. Tuttavia, questi effetti non possono essere automaticamente applicati all’uomo per le differenze fisiologiche e metaboliche.
Dementia prevention, intervention, and care: 2020 report of the Lancet Commission
Risk Reduction of Cognitive Decline and Dementia: WHO Guidelines
Practice guideline update summary: Mild cognitive impairment
Effects of intermittent fasting on cognitive health and Alzheimer’s disease